C’è stato un periodo in Italia negli anni ’60 e ’70 dove tanti cantanti famosi per creare qualche hit di successo senza troppo faticare traducevano, spesso malamente, qualcuno dei grandi successi internazionali che abbondavano oltreoceano in uno dei periodi più fervidi in fatto di creatività musicale.
Le traduzioni erano più o meno fedeli, ma ci sono stati casi davvero eclatanti di canzoni mitiche snaturate da una pessima localizzazione.

Uno dei “colpevoli” per eccellenza è Adriano Celentano: prendere “Stand by me” di Ben King, una dolce ballata sulla solitudine e sull’amore e trasformarla in un “Pregherò” da oratorio è un reato contro natura, perpetrato tra l’altro con l’aiuto del famigerato Don Backy.
La canzone ebbe anche strascichi legali, perchè Celentano non sapeva che sulla musica gravassero dei diritti di copyright, ma nonostante questo è giunta fino a noi. Purtroppo.
Il Molleggiato ha praticato estensivamente l’arte della malatraduzione in almeno altri 3 casi: “Stai lontana da me”, “Il Contadino” e “Il problema più importante”.
Celentano però subì anche un plagio/cover, con “Il ragazzo della via Gluck” tradotto in francese da Francois Hardy… Ben gli sta.

Anche Caterina “casco d’oro” Caselli non ha perso l’occasione di rovinare un bel po’ di canzoni: una su tutte “Paint it black” dei Rolling Stones, che pur mantenendo pressappoco lo stesso testo (la morte dell’amata pone un velo nero di tristezza sugli occhi del protagonista) non ha certo la stessa grinta e cattiveria disperata dell’originale.
Oppure per completezza come non citare anche “La casa degli angeli”, che traduce Neil Diamond (“I am, I said”) trasformando il canto straziante di solitudine di un newyorkese trapiantato a Los Angeles in un patetico “noi vivevamo come due rondini / nascoste tra i rami della vita / nella casa degli angeli / Qualche volta ci ricordavamo di dormire / ma era più il tempo che ci amavamo”.
Ricordiamo anche “Sono Bugiarda”, che stravolgeva il senso di “I’m a Believer” dei Monkees (sì, quella di Shreck), scritta sempre da Neil Diamond, che non stento a immaginare cosa avrebbe fatto col casco dorato della ragazzetta italiana se solo avesse saputo.

Non vanno dimenticati i Dik Dik, che tra “L’isola di Wight” (“Wight is Wight”, Michel Delpech), “Ma tu chi sei” (“Bad side of the moon”, Elton John), “Inno” (“Lets go to San Francisco”, Flower Pot Men), “La tua immagine” (“Sound of Silence”, Simone&Garfunkel) e altre decine di cover simili ealtrettanto patetiche, alla fine devono aver imparato l’inglese e hanno tradotto final mente in modo fedele “Sognando la California” (“California Dreamin'”, Mamas&Papas).

Caso simile a quello degli Equipe84 che nella loro carriera sono riusciti a rovinare canzoni di Cher, Beach Boys, Bee Gees, Rolling Stones (“Time is on my side” diventa “La fine del libro”… un po’ di dignità!) prima di affidarsi ad un buon traduttore per “Io ho in mente te”, che è identica per testo e musica a “You were in my mind” di Barry McGuire.

Barry McGuire, parliamo di lui. Nella seconda metà degli anni ’60, negli States, andava forte come cantante folk, incantava le folle con la splendida “Eve of destruction” sommario di tutte le paure che attraversavano la politica internazionale dell’epoca, dalla guerra fredda alla questione mediorientale e alla rinascita dell’estremo oriente.
In Italia però mica avevamo CIA e KGB, dovevamo accontentarci di Don Camillo e Peppone… per cui un cantautore (molto canta e poco autore) di sinistra, tal Pietro Masi, personaggio di riferimento del gruppo Lotta Continua, trasformò l’inno pacifista in “L’Ora del Fucile”, il cui ritornello dice “cosa vuoi di più, compagno, per capire / che è giunta ormai l’ora del fucile? / […] / ovunque barricate: da Burgos a Stettino, ed anche qui da noi, / da Avola a Torino, da Orgosolo a Marghera, da Battipaglia a Reggio, / la lotta dura avanza, i padroni avran la peggio.”
Evidentemente la minaccia nucleare è ben poca cosa rispetto ad una manifestazione “rossa”…

“If I had an hammer”… nella versione originale Pete Seeger chiedeva un martello per correggere le ingiustizie del mondo: “Scaccerei il terrore a martellate / Scaccerei la paura a martellate / Metterei l’amore a forza di martellate / Tra i miei fratelli e le mie sorelle / Su tutta questa terra”.
Ma qui siamo provinciali, non possiamo osare così tanto. Rita Pavone, la odiosa Rita Pavone, si accontenta quindi di chiedere “Datemi un martello” perchè “Lo voglio dare in testa / a chi non mi va. / A quella smorfiosa / con gli occhi dipinti / che tutti quanti fan balla re, / lasciandomi a guardare, / eh che rabbia mi fa / […] / A tutte le coppie / che stanno appiccicate, / che vogliono le luci spente / e le canzoni lente”.
Meno male che alla fine della canzone italiana la povera Rita viene chiusa in casa da mamma e babbo a ballare l’hullygully con gli amici… limitiamo i danni.

continua

La separazione dei poteri è uno dei principi fondamentali dello stato di diritto.” (almeno così diceva Montesquieu).

In Italia (ma a dire il vero anche in altri paesi europei) questo principio non trova una grande applicazione. Infatti il governo (detentore del potere esecutivo) deve avere la fiducia della maggioranza del parlamento (detentore del potere legislativo). Ora, la cosa potrebbe anche funzionare se il parlamento fosse popolato da decine di partitini di cui nessuno avesse alcuna possibilità nemmeno di andare vicino alla maggioranza. In questo caso i “partitini” sarebbero costretti a trovare una qualche intesa temporanea e ciascuno di loro farebbe da garante che il governo di turno non si faccia prendere la mano. Infatti, alla prima alzata d’ingegno, un governo qualsiasi potrebbe essere tranquillamente mandato a casa dal parlamento e si realizzerebbe un bilanciamento fra i due poteri. È interessante notare che questa era la situazione per la quale il nostro sistema era stato pensato (mi dicono dalla regia che in Belgio le cose funzionano a tutt’oggi così). Non è forse la migliore delle soluzioni possibili ma può funzionare.

Cosa succede però in una situazione di bipolarismo? Cosa succede quando ci sono solo due partiti/coalizioni in parlamento e una delle due uscirà in automatico con la maggioranza parlamentare (risicata o abbondante che sia). Facile: ci sarà il presidente di un partito/coalizione che avrà in mano sia il potere legislativo (alla fin fine è a capo del partito di maggioranza assoluta in parlamento) che il potere esecutivo (verrà sicuramente designato come capo del governo). Fine della divisione dei poteri. Fine del sistema di pesi e contrappesi che fa in modo che nessuno possa fare quello che gli pare e piace. Fine dello stato di diritto.

Se a questo ci aggiungiamo un sistema elettorale dove i cittadini possono votare solo per i partiti/coalizioni al parlamento e non per la singole persone (assenza delle preferenze) arriviamo ad una situazione dove ci sono i due capi dei due principali partiti che decidono univocamente chi sarà in parlamento e chi al governo. Nessuna separazione dei poteri e nessuna possibilità per i cittadini di esercitare una, seppur blanda, forma di controllo.

Cosa manca? Ah sì, il potere giudiziario. Quello è in mano ai giudici ed alla corte costituzionale. Persone che non vengono elette ma selezionate in base alle loro competenze e su cui parlamento e governo non hanno alcun potere. Insomma, almeno il potere giudiziario sembrerebbe indipendente e ben separato dagli altri. Certo, ad una mente maligna ed in cattiva fede potrebbe sembrare che i continui attacchi ai magistrati da parte di alte cariche dello stato siano un tentativo di delegittimazione dell’ultimo potere indipendente. Alla stessa mente paranoica potrebbe venire in mente che frasi del tipo “la libertà e la democrazia sono rappresentate dal popolo e i magistrati non sono eletti dal popolo” (questa è di Bossi nel 2003 ma a giro se ne trovano tante varianti col medesimo significato) siano un tentativo di mettere il potere giudiziario sotto il diretto controllo dell’esecutivo.

La parte più divertente/tragica è che tutto questo ci viene venduto come se fosse una battaglia per le nostre libertà. Come se mandare a ramengo la separazione dei poteri fosse il più grande atto democratico possibile.

E noi ci stiamo pure credendo…

Se siete laureati in ingegneria o in giurisprudenza potete far valere i vostri anni di studio e le vostre competenze lavorando come casellanti!

Nemmeno le offerte della Minaccioni lavoro avevano mai osato tanto…

via noiseFromAmerika

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Onore al merito /2 by

9 Giu
2008

Qualcuno più intelligente di me e con più ironia di quanta io potrò mai averne ha scritto questa piccola storia a bivii sui concorsi per ricercatore. Ridete o piangete (lo lascio al vostro gusto personale).

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E la ricerca? /2 by

5 Giu
2008

Dopo lo sfogo di qualche giorno fa mi ricompongo un attimo e vedo di trattare qualche argomento non troppo ovvio ed inflazionato riguardo allo stato (disastroso) della ricerca italiana.

In Italia c’è il culto del posto fisso. Ovvero di un posto dove, una volta entrato, non ti tocca nessuno e ti puoi considerare arrivato. Uno dei motivi per cui tanti (quasi tutti) anelano al posto fisso è che l’alternativa non è il posto flessibile, ma il posto precario. Una differenza importante fra il flessibile ed il precario è che il flessibile non è ricattabile (se il datore di lavoro pone condizioni che non mi piacciono io semplicemente vado a lavorare per un altro), mentre il precario sì (dato che non ha altri posti dove andare).

Io sono un precario della ricerca e vi dirò che, piuttosto che diventare uno stabile della ricerca (ovvero uno di quei professori che non li sposti nemmeno fra mille anni), vorrei diventare un flessibile della ricerca. Nel mio mondo ideale (“nel boschetto della mia fantasia” cantava qualcuno) ci sarebbe un certo numero di università, enti di ricerca e industrie pronte ad assumere (a tempo determinato) persone brillanti e qualificate. Dato che, appunto, c’è bisogno di gente brillante e qualificata le varie università userebbero criteri meritocratici per decidere chi prendere e i migliori potrebbero contrattare stipendi più alti in centri di ricerca di eccellenza. Gli altri si accontenterebbero di stipendi dignitosi in centri di ricerca dignitosi o troverebbero la loro strada da qualche altra parte.

Diciamocelo chiaro e tondo: io non penso proprio che rientrerei mai nell’elite dei migliori. Poco male. Preferirei comunque un sistema dove qualcuno valutasse in maniera oggettiva le mie capacità e possibilità e, se non sono abbastanza bravo, me lo dicesse chiaro e tondo. Se non merito sono pronto ad andare a zappare un campo (che fare il contadino è un mestiere dignitosissimo). Dall’altro lato, nell’improbabile caso che qualcuno decida che io sono un fenomeno, esigo che questo venga valorizzato e che mi vengano date delle possibilità.

Adesso invece viviamo in un sistema dove i bravissimi, i bravini ed i mediocri non vengono chiaramente distinti. Dove conta più la perseveranza nello stare incollato al professore giusto (finché questo non faccia spuntare dal cilindro un concorso semi-truccato fatto apposta per te) piuttosto che dimostrare quanto si vale. Dove un 80% abbondante di chi diventa professore ordinario smette di fare ricerca (e quindi di produrre), tanto ormai il posto non glielo tocca più nessuno.

Certo, c’è sempre la possibilità di fuggire all’estero. Ma io coltivo ancora la segreta speranza che in questo paese ci sia ancora qualcosa da salvare.

Neuroni in fuga /5 by

30 Mag
2008

Z. è un ingegnere che, dopo una lunga parentesi nell’industria ha deciso di assecondare la sua passione e si è dedicato alla ricerca universitaria (in fisica). Ha lavorato un po’ di anni ma i suoi progetti di ricerca non venivano mai finanziati perché considerati di scarso interesse.

Ora è ad Harvard dove gli hanno messo in mano soldi e strumentazioni per portare avanti le sue idee (che loro considerano “cutting edge technology“).

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Prendendo spunto da questo (non interamente condivisibile ma interessante) e, soprattutto da questo (che invece condivido al 100%) per fare una breve riflessione sulla ricerca (anzi sui ricercatori) in Italia.

Intanto vediamo un po’ come funziona nei posti civili: tizio (o tizia, fa uguale) si laurea nella sua materia preferita. Ha la bravura e voglia per restare nell’ambito accademico e fa un concorso per un posto di dottorando. Dove? Bhé,volendo nello stesso posto dove si è laureato ma, molto più spesso, in un’altra università. Cambiare città (o stato) non è un grossissimo problema dato che la borsa di dottorato ti permette di vivere dignitosamente (seppur con qualche rinuncia). Finito il dottorato, se ha ancora voglia e dimostra le capacità, cercherà da qualche parte un posto come post-doc, ovvero una posizione temporanea (di solito annuale o biennale rinnovabile). Dove? Qualcuno torna da dove era partito, qualcuno cambia università, qualcuno cambia continente. Lo stipendio è sufficiente per vivere e per iniziare a pensare di metter su famiglia (che sarebbe anche l’età!) seppur non ci sia da diventare ricchi. A questo punto il nostro intrepido inizia a formarsi un curriculum di tutto rispetto, acquisisce esperienza nella gestione dei fondi, pubblica e si fa notare. Dopo qualche anno può iniziare a fare concorsi per un posto fisso e, se ha ben lavorato ed ha dimostrato di essere una persona capace, si stabilizzerà in una università dove (plausibilmente) farà partire un piccolo gruppo di ricerca.

E in Italia? tizio (o tizia, fa uguale) si laurea nella sua materia preferita. Ha la bravura e voglia per restare nell’ambito accademico e fa un concorso per un posto di dottorando. Dove? Farà bene a provare innanzi tutto nell’università dove a preso la laurea dato che l’80% abbondante delle borse vanno agli autoctoni. Se gli va buca può iniziare a provare in altre università italiane ma è bene che non abbia la velleità di scegliere di cosa occuparsi. Accetterà quel che gli viene offerto, qualunque cosa sia. Se decide di andare all’estero allora va a ricadere nella situazione descritta sopra. Con un’unica variante: non tornerà mai più in Italia. Un altro buon motivo per restare nella stessa università è che la borsa di dottorato (800 euro mensili) non permette di scialare tanto nell’affitto di una casa e quindi è bene affidarsi a soluzioni già sperimentate negli anni degli studi (che sia la casa di mamma e papà o una stanza presa insieme ad altri studenti). Finito il dottorato inizia la ricerca di un post-doc. E qui comincia la vera crisi dato che il 99% dei gruppi di ricerca non ha i soldi per farlo restare e gli altri gruppi in Italia non hanno i soldi per farlo venire. Ci sono quindi tre possibilità: o ha la fortuna di scovare dei fondi in un vecchio baule ed allora resta come post-doc dove ha fatto il dottorato, o va all’estero (ed allora non tornerà mai più in Italia), o si adatta a fare lo schiavo”aggratis” finché qualche santo non gli troverà una miserrima borsa per dargli di che vivere. Ovviamente in queste condizioni c’è poco da scialare nello spostarsi in su e giù per l’Italia ed ancora meno per mettere su famiglia. A questo punto il nostro intrepido inizia a formarsi una rete di conoscenze e “si mette in coda”. Infatti, nel 99,9% dei casi, in Italia avere un curriculum di pubblicazioni da favola e/o essere estremamente competenti non ha nulla a che vedere col ricevere il tanto agognato “posto fisso”. Quello che conta è in che coda ti sei messo (ovvero chi è il tuo boss e quanta influenza politica ha) e in che posizione della coda sei. Conta anche quando e come il governo di turno deciderà di bandire dei concorsi, dato che siamo un paese dove questi non solo arrivano col contagocce ma anche con una irregolarità che ha dell’assurdo. Insomma se hai perso il treno puoi metterti l’animo in pace. Anche se sei un genio. Certo puoi andare all’estero, ma vorrebbe dire non tornare mai pù in Italia.

Ego feeder /2 by

22 Mag
2008

Se vi capitasse di andare sul sito di Nature e di sfogliare il numero uscito oggi potreste accorgervi che, a pagina 495, c’è un articolo il cui secondo autore ha come iniziali proprio J B. I più acuti di voi riusciranno a mettere in relazione questo fatto col sottoscritto. Gli attenti osservatori noteranno anche che la copertina di Nature è dedicata proprio a questo articolo.

Che dire? Mi do una pacca sulla spalla da solo 🙂

Onore al merito by

19 Mag
2008

Vorrei dare risalto a questo ottimo lavoro di Marcello Seri e Alice Venturini Barazzuol su PostScript e frattali. L’argomento è un filo tecnico ma il tutto risulta sorprendentemente scorrevole e di facile comprensione anche ai non addetti ai lavori.

Dato che l’ho già fatto vedere un po’ a giro ed ho già ricevuto un po’ di feedback posso dire che interesserà:

  • Chiunque abbia un po’ di passione per la programmazione
  • Chiunque abbia un po’ di passione per la grafica
  • Chiunque abbia un po’ di curiosità intellettuale verso i frattali ma non abbia voglia di affogare in concetti esoterici come la dimensione di Hausdorff.

Complimenti vivissimi agli autori.

via: la prima edizione del carnevale della matematica, ideato da .mau. ed ospitato da proooof.

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Pollok? Dix! by

15 Mag
2008

Forse è necessario che io premetta che ho adorato Napoleone e ci sono rimasta male quando è finito..
Ho appena finito di leggere il primo numero di Jan Dix, nuova miniserie della Bonelli ideata da Carlo Ambrosini e non sono rimasta un granché colpita.
Le mie perplessità:
* perché doveva chiamarsi Pollok e invece è diventato Dix, senza dir nulla a nessuno?
* già ridotta a 14 numeri invece dei 18 annunciati
* ma soprattutto.. Dix non è Napoleone, non ha Caliendo, Scintillone e Lucrezia, ma ha lo stesso contorno onirico (l’incubo di Dix nel primo numero non è troppo diverso dai sogni in cui rimane intrappolato Napoleone..) che i napoleonici ben conoscono
* il prossimo numero si preannuncia con una tigre in copertina e io già mi rivedo l’Africa di Napoleone
* va bene che esce un numero ogni due mesi e che è più corposo dei mensili “normali” ma costa anche 80 cent in più
Conclusione? Perplessa. Vedremo il prossimo paio di numeri.

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