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Attenzione: Questo post parla di matematica (un po’ anche di fisica) e non proprio a livelli elementari. In soggetti predisposti leggere quello che segue potrebbe indurre narcolessia, attacchi di panico e, nei casi più gravi, esplosione della scatola cranica. Continuate a vostro rischio e pericolo.
Il mio professore di Analisi all’università era solito dire che calcolare una derivata è una tecnica mentre risolvere gli integrali è un’arte. In effetti non esiste un modo sempre valido di cavar fuori qualcosa di buono da un integrale e, caso per caso, bisogna inventarsi un trucco che funzioni. Se questo è vero per gli integrali allora, a maggior ragione, è vero per le equazioni differenziali. Se avete fatto tanto di studiare qualcosa di anche solo vagamente scientifico vi sarete resi conto che le equazioni differenziali sono più o meno ovunque e che, tranne pochissimi casi dove esiste una formuletta risolutiva (che il vostro prof vi ha fornito e che voi avete ciecamente applicato per passare l’esame ed avete dimenticato pochi minuti dopo) non è mai realmente possibile risolverle. Certo, i matematici si son dati pena di scrivere tomi ponderosi che contengono la soluzione a millemila equazioni differenziali diverse: tuttavia siate pur certi che quella che vi servirebbe in quel dato momento non rientra nel novero di quelle già studiate (immagino che questo sia un qualche corollario della legge di Murphy).
Non tutto è perduto: esistono tutta una serie di tecniche (separazione di variabili, espansione in serie ecc) che sono relativamente facili da ricordare e da applicare e che funzionano “spesso”. Tanto che le si insegna in quasi tutti i corsi di fisica, ingegneria ecc. Una di queste tecniche, che io trovo particolarmente elegante ma che nessuno si è mai dato pena di insegnarmi durante i miei lunghi anni di università , è la “espansione in autofunzioni”.
Una autofunzione (spesso chiamata anche “autovettore“) è una funzione Ψ particolare che resta poporzionale a se stessa quando vi viene applicato un operatore A: A Ψ = λ Ψ, dove λ è il coefficiente di proporzionalità ed è chiamato autovalore. Ciascun operatore ammette un certo numero di queste autofunzioni e ciascuna autofunzione ha associato il suo autovalore. Trovare autovalori ed autofunzioni di un operatore non è sempre banale ma è quasi sempre possibile ottenerne senza troppa fatica almeno delle buone approssimazioni numeriche.
Apparentemente autofunzioni ed equazioni differenziali hanno poco a che vedere le une con le altre ma, in realtà , possiamo utilizzare la conoscenza delle prime per risolvere le seconde. Per farlo sfrutteremo il fatto che l’insieme di tutte le autofunzioni di un dato operatore forma una base completa, ovvero qualunque funzione su cui l’operatore A possa agire può essere scritta come somma delle autofunzioni dell’operatore stesso: f=Σi ai Ψi. Fra tutte queste funzioni che possono essere scritte come somma c’è anche la soluzione della nostra equazione differenziale; quindi trovare la soluzione equivale a trovare tutti i coefficienti ai della sommatoria.
Un’altra proprietà utile delle autofunzioni è che sono normalizzate e ortogonali fra loro, ovvero <Ψi|Ψj> è pari ad 1 se i=j e zero in qualunque altro caso, dove = ∫ f g dx è il prodotto scalara canonico fra due funzioni a quadrato integrabile (N.B. qui tutte le funzioni sono reali e quindi non ci preoccuperemo dei complessi coniugati e cose del genere). Moltiplicando quindi scalarmente l’espansione in autofunzioni di f per Ψj otteniamo < f | Ψj>=Σi ai <Ψi|Ψj> = aj. Questa relazione, apparentemente inutile, ci servirà nel seguito.
Per evitare di andare ancora più sull’astratto di quello che già stiamo facendo spieghiamo questo metodo con un esempio: ipotizziamo di voler risolvere l’equazione di diffusione ḟ=D ∇2 f su di un intervallo con la condizione al contorno che la soluzione debba essere pari a zero agli estremi. Ora, se l’intervallo è di lunghezza infinita questa equazione si risolve in pochi passaggi (suggerimento: fare la trasformata di Fourier rispetto alle coordinate spaziali, risolvere rispetto al tempo per separazione di variabili e antitrasformare), se invece l’intervallo ha dimensioni finite il tutto si complica notevolmente. Non che non si possa risolvere, però non è più così banale. Ipotizziamo però di conoscere tutte le autofunzioni e gli autovalori dell’operatore Laplaciano (∇2) definito sul nostro intervallo (che sono diversie dalle autofunzioni e gli autovalori del Laplaciano definito su tutta la retta reale), allora potremo riscrivere la nostra equazione di diffusione come: δt Σi ai Ψi = D ∇2 Σi ai Ψi (dove δt rappresenta l’operatore di derivazione rispetto al tempo). Sfruttando il fatto che il Laplaciano è un operatore lineare (ovvero le costanti possono passare liberamente dalla sua destra alla sua sinistra) otteniamo δt Σi ai Ψi = D Σi ai λi Ψi; moltiplicando (scalarmente) entrambi i lati dell’equazione per Ψj troviamo δt aj = D aj λj che può essere facilmente risolta per separazione di variabili ottenendo aj = Aj eD λj t dove Aj è una costante che dipende dalle condizioni iniziali. In particolare, al tempo zero, A=aj e quindi A= < f | Ψj>= ∫ f(x,t=0) Ψj(x) dx (vi ricordate la relazione apparentemente inutile di prima?). Avremo quindi aj= eD λj t ∫ f(x,t=0) Ψj(x) dx.
In questo modo abbiamo ottenuto tutti i coefficienti aj che possono essere risostituiti nello sviluppo f=Σi ai Ψi per ottenere f= Σi eD λj t Ψi ∫ f(x,t=0) Ψi(x) dx. Nel caso in cui al tempo zero la funzione f fosse tutta concentrata in un solo punto (caso abbastanza comune quando si studia l’evoluzione di un processo diffusivo) potremo scrivere f(x,t=0)=δ (x-x0) e quindi la soluzione si semplifica notevolmente diventando f(x,t)=Σi eD λj t Ψi(x) Ψi(x0). In pratica possiamo ottenere la soluzione alla nostra equazione differenziale semplicemente come sommatoria delle autofunzioni del Laplaciano. Giustamente però uno si potrebbe chiedere: “ma quanto è difficile trovare queste autofunzioni?”. In effetti se fosse difficile tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora sarebbe assolutamente inutile; fortuna vuole che trovarle sia piuttosto semplice. Infatti il Laplaciano in una dimensione altro non è che la derivata seconda rispetto alla coordinata spaziale e noi di funzioni che derivate due volte ritornano uguali a se stesse ne conosciamo già diverse senza dover fare troppa fatica: seni, coseni ed esponenziali (ci sarebbero anche seni e coseni iperbolici ma, alla fin fine, sono sempre somme di funzioni esponenziali esponenziali). Coseni ed esponenaizli li possiamo però scartare subito, infatti a noi servono funzioni che possano essere zero alle estremità . Restano i seni; in un intervallo che va da zero a L tutti i seni nella forma sin(Ï€ n L-1 x) con n intero sono zero agli estremi e ∇2 sin(Ï€ n L-1 x) = – Ï€2 n2 L-2 sin(Ï€ n L-1 x). Quindi, senza troppa fatica, abbiamo trovato che sin(Ï€ n L-1 x) sono le autofunzioni dell’operatore Laplaciano e – Ï€2 n2 L-2 i suoi autovalori.
Abbandonando per un attimo la matematica e guardando alla fisica possiamo notare che, nella soluzione che abbiamo trovato, gli autovalori λi rappresentano l’inverso di una costante di tempo. In pratica tanto più piccolo (in valore assoluto) è l’autovalore tanto più importante sarà il suo contributo a tempi lunghi. Dato che noi l’autovalore più piccolo di tutti lo conosciamo (è quello per cui n=1) possiamo vedere che per tempi lunghi sarà l’unico a contare e che quindi f(t) ∠e– D Ï€2 L-2 t. Ovvero, per tempi lunghi, la soluzione dell’equazione di diffusione decade esponenzialmente e la rapidità di questo decadimento dipende solo dal coefficiente di diffusione D e dall’inverso del quadrato dello spessore L del vostro sistema.
Tornando alla matematica ri-astraiamoci un po’ dal caso particolare: la tecnica dell’espansione in autofunzioni ci permette di trasformare un’equazione differenziale in un’equazione algebrica per i coefficienti dello sviluppo semplificandoci di molto la vita. Il prezzo da pagare è quello di avere una soluzione sotto forma di sommatoria invece che esplicita ma, in molti casi, si tratta di un prezzo accettabile. Nel caso in cui si conoscano le autofunzioni solo per un pezzo dell’operatore (è il caso della nostra equazione di diffusione dato che avevamo a disposizione le autofunzioni del Laplaciano e non dell’operatore δt-∇2) quello che si ottiene è di togliere di torno quella parte, lasciandoci con una equazione che sempre differenziale è ma che, sperabilmente, è un po’ più facile da risolvere rispetto a quella di partenza.
Per concludere ritorniamo alla fisica: la soluzione f= Σi eD λj t Ψi ∫ f(x,t=0) Ψi(x) dx vale per qualunque equazione differenziale della forma ḟ=c H f dove c è una costante numerica e H un qualunque operatore che ammetta una base di autofunzioni. A quelli di voi che hanno almeno un’infarinatura di meccanica quantistica un’equazione di questo tipo dovrebbe immediatamente far accendere una lampadina in testa: l’equazione di Schrödinger. Infatti, se riuscite a trovare autovalori ed autofunzioni della vostra Hamiltoniana (così si chiama l’operatore H che sta nell’equazione di Schrödinger) avrete gratis la soluzione completa del vostro problema (e scusate se è poco!).
1 Response to Espansione in autofunzioni
Medusa
Dicembre 26th, 2010 at 17:08
ottimo!