E se mi dessi alla fuga? by

19 Mar
2009

Ogni giorno che passa ho più voglia di trasformarmi in un cervello in fuga. Lo so che non sarebbe un’azione particolarmente coraggiosa ma non ci posso fare niente, il desiderio è sempre lì. Non è tanto una questione finanziaria (anche se…) quanto il senso di sconforto che mi prende al pensiero di essere governato da persone capaci di dire certe cose.

(via Piovono Rane)

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Mi piace al punto da aver violentato Wikipedia e averci “scritto” la mia pagina utente, ma capisco che il suo abuso possa suscitare movimenti di contro-propaganda e le persone vengano indotte a nascondere la loro passione. Per me è un supereroe!

(..post insanamente e inconsapevolmente istigato da jtheo)

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Scorie by

17 Mar
2009

Ultimamente si parla molto di nucleare. Si parla di reintrodurlo in Italia, dei suoi vantaggi, dei suoi svantaggi ecc. Purtroppo però in Italia sembra valere la regola che ciascuno parla un po’ per sentito dire e le opinioni paiono contare più dei fatti. Ciascuno dice il suo e nessuno si preoccupa di verificare se le affermazioni fatte abbiano o meno senso.

Un punto nodale del discorso sul nucleare sono i suoi costi: si dice spesso che il nucleare costi molto meno dell’eolico, del solare ecc ecc. Questo non è che sia falso, produrre un watt di energia tramite reazioni di fissione nucleare in effetti costa meno che produrre lo stesso watt da una turbina eolica, però è una mezza verità. Nel computo dei costi infatti non ci si può mettere solo quanto costa quel watt fino al momento della produzione ma bisognerebbe tenere anchein conto quanto ci costa dopo che è stato prodotto. Ed è qui che (secondo me) il nucleare mostra il fianco.

Infatti, per produrre quel watt di energia, si sono create delle scorie radioattive e qualcosa bisogna farci. I fautori del nucleare di solito (almeno nella mia esperienza) tendono un po’ a glissare sull’argomento dicendo che basta immagazzinarle in maniera sicura ed il gioco è fatto. Ok, andiamo a vedere quanto costa “immagazzinare in maniera sicura” in un paese che di nucleare ha una certa esperienza: gli Stati Uniti d’America.

Negli USA ci sono un centinaio di centrali nucleari che soddisfano pressappoco il 20% del fabbisogno energetico nazionale. I dati ufficiali parlano di almeno 50000 tonnellate di scorie radioattive attualmente presenti sul territorio americano e si ritiene che questa cifra salirà a 120000 tonnellate entro la fine del ciclo vitale degli attuali reattori (quindi senza costruirne di nuovi). Le scorie da qualche parte vanno messe e, in questo momento, la soluzione migliore che è stata trovata è stata la realizzazione di contenitori ermetici dal peso di 180 tonnellate ciascuno (e dal costo di un milione di dollari cadauno) che, se tutto vasecondo le specifiche, saranno in grado di contenere le scorie per 100 anni. Ok, cento anni è un mucchio di tempo ma le scorie restano pericolose per 10000 anni e quindi non mi pare un gran risultato.

In più questi contenitori da qualche parte devono essere messi. Un contenitore di materiale altamente radioattivo è un ottimo bersaglio per attacchi terroristici e comunque bisogna mettersi al riparo da possibili problemi di fabbricazione (come insegna LHC non importa con quanta cura tu progetti uno strumento, è sempre possibile che si sfasci quando meno te lo aspetti). Bisogna quindi trovare un luogo dove immagazzinarli che sia ragionevolmente lontano da centri abitati, che sia geologicamente stabile (ve lo immaginate un terremoto in un magazzino di rifiuti radiattivi?), che sia lontano da falde acquifere e che abbia una conformazione geologica tale che, anche se ci fossero perdite, queste non si propaghino ma il tutto resti confinato lì. Trovare un posto con queste caratteristiche non è facile nemmeno in una nazione grande come gli Stati Uniti d’America (che ha una densità abitativa che è oltre 6 volte più bassa di quella italiana), figuriamoci qui da noi. Fatto sta che il decennale progetto della Yucca Mountain è stato abbandonato ed ora si cerca da zero una nuova locazione.

Riassumiamo: un milione di dollari per ciascun contenitore (non sono riuscito a capire di preciso che capienza abbiano questi contenitori ma, dato che pesano 180 tonnellate possiamo supporre che non possano contenete più di 100 tonnellate di scorie ciascuno) per stare più o meno tranquilli per un centesimo del tempo per cui le scorie saranno pericolose e comunque a questo vanno aggiunti i costi per individuare ed allestire un luogo adatto per immagazzinarli.

Certo, esistono proposte di metodi alternativi, inclusa la possibilità di bruciare i residui radioattivi in modo da renderli pericolosi per “solo” qualche centinaio di anni invece che 10000 (che sarebbe già un’ottima cosa). Ma si tratta, appunto, di proposte teoriche ancora ben lontane dal diventare un’applicazione pratica.

Allora quanto costa quel watt di energia prodotto tramite fissione nucleare? Siamo proprio sicuri che includendo tutti i costi risulti davvero così vantaggioso?

Vanzina non mi ha ancora telefonato, giuro!

  • Cassettato in: wiki

Darwinismo quantistico by

13 Mar
2009

N.B. Questo stesso identico post appare anche sull’ottimo Progetto Galileo ma a nome “Clodovendro” invece che “J B”. Nessun plagio, sono sempre io. Solo con un nickname diverso.

Mediamente i fisici non sono troppo interessati alla teoria dell’evoluzione. Le leggi della fisica (per quanto ne sappiamo) sono rimaste sempre quelle dall’inizio dei tempi e l’universo “evolve” seguendo fedelmente queste leggi. Anzi, per un fisico la riproducibilità è un punto cardine della ricerca scientifica: se io metto mille volte questo elettrone in queste condizioni lui si comporterà mille volte nello stesso modo. Certo, dall’avvento della meccanica quantistica ad oggi il determinismo è stato abbandonato in favore di previsioni di tipo probabilistico, ma il concetto di fondo è rimasto lo stesso e non lascia molto spazio ai meccanismi di selezione tanto cari ai biologi. Tuttavia difficilmente le buone idee non trovano applicazione un po’ ovunque e persino nella meccanica quantistica, se uno guarda per bene, le intuizioni di Darwin trovano una loro collocazione.

Gli ingredienti fondamentali di una teoria Darwiniana dell’evoluzione sono: qualcosa che sia in grado di produrre copie di se stesso (simili ma non identiche l’una all’altra), una competizione per una qualche forma di risorsa ed un meccanismo di selezione che permetta solo ai più “adatti” di riprodursi. Wojciech H. Zurek (ricercatore a Los Alamos) ha trovato che, con gli opportuni adattamenti, questi ingredienti li si trova dove meno uno se li aspetterebbe: nella teoria della misura quantistica.

Andiamo per gradi: la meccanica quantistica è una teoria, sviluppata da un gran numero di scienziati a partire dagli inizi del XX secolo, che descrive il comportamento dei corpi “molto piccoli”. Caratteristica fondamentale di questi “corpi molto piccoli” è che, quando uno li va ad osservare, vede che si comportano in maniera totalmente diversa da quella che è l’intuizione di tutti i giorni. Se io lascio cadere un sasso l’esperienza mi dice che questo cadrà con velocità e traiettoria ben definite e predicibili. Un elettrone invece non cadrà seguendo una traiettoria ben definita ma si troverà in una “sovrapposizione” di tutte le traiettorie possibili. Cosa ancora più strana, quando andrò a misurare la posizione di questo elettrone non lo troverò mai in questo stato di “sovrapposizione” ma lo misurerò sempre con una posizione ben definita. Quello che succede è che, lasciato a se stesso, l’elettrone seguirà il principio di sovrapposizione e si troverà contemporaneamente in tutti gli stati possibili, appena però qualcuno andrà ad “osservarlo” lui sceglierà uno ed uno solo di questi stati e si farà trovare lì (postulato della proiezione). In realtà non c’è bisogno di una intelligenza che osservi (come ongi tanto qualcuno dice nella speranza di appiccicare idee metafisiche alla meccanica quantistica), molto più banalmente basta che l’elettrone inizi ad interagire con l’ambiente (ovvero con tutta quella parte di universo che non fa parte del sistema composto dal solo elettrone); ogni volta che l’elettrone interagisce in un qualche modo col resto dell’universo viene “misurato” e quindi costretto a scegliere uno solo fra la moltitudine di stati possibili.

Un’altra proprietà importante della meccanica quantistica è che, una volta che ho misurato il mio elettrone, se lo rimisuro immediatamente dopo, otterrò esattamente lo stesso risultato. Questo vuol dire che lo stato misurato non è banalmente uno preso a caso fra tutti quelli possibili ma che, una volta fatta la scelta, questa scelta è in qualche modo definitiva.

Ma perché io non posso misurare la sovrapposizione degli stati? E come fa l’elettrone a sapere di essere osservato e quindi a scegliere uno stato? E come sceglie proprio quello e non un altro? Questi sono i problemi della teoria della misura quantistica. L’approccio di Bohr (ovvero quello che è divenuto l’approccio standard) era di postulare questo comportamento e dimenticarsene. L’approccio di Zurek invece è di studiare come avviene una misura: infatti noi non siamo mai veramente in grado di “misurare” un elettrone, quello che possiamo fare è di misurare una piccola frazione dell’ambiente che lo circonda. Facciamo un esempio più vicino a noi: quando leggiamo le pagine di un libro non non stiamo veramente avendo un’esperienza diretta dell’inchiostro sulla pagina ma ci stiamo limitando a captare una piccola frazione dei fotoni che rimbalzano sulla pagina e poi finiscono nei nostri occhi. Siamo tutti d’accordo che il libro sia reale (anche se non ne abbiamo una misura diretta) perché se ci mettiamo in due a rileggere la stessa pagina, raccogliendo fotoni diversi i momenti diversi, saremo comunque concordi sul suo aspetto e su quello che c’era scritto. L’inchiostro sulla pagina del libro ha interagito con la luce che poi si è propagata e noi ne abbiamo misurato solo una piccolissima frazione; ciò nonostante abbiamo raccolto una gran quantità di informazioni su quell’inchiostro. Se raccogliessimo più luce non aumenteremmo di molto la nostra conoscenza su quel libro ed anche se ripetessimo la misura mille volte non progrediremmo molto oltre al punto dove siamo arrivati la prima volta.

Con l’elettrone il concetto è analogo: noi non misuriamo direttamente l’elettrone ma misuriamo una piccola frazione dell’ambiente che lo circonda e da questo traiamo tutta l’informazione che ci serve sulla sua posizione. Eppure, dal punto di vista della meccanica quantistica, questo suona un po’ strano. L’elettrone poteva avere miliardi di stati possibili, perché, pur misurando solo un’infinitesima frazione di quello che c’era da misurare, l’abbiamo visto tutti nella stessa posizione? Ecco, qui entra in gioco il Darwinismo quantistico.

L’elettrone parte da un certo “stato” iniziale. Questo stato interagisce con l’ambiente e vi lascia un’impronta, solo che ogni frazione di ambiente ha solo una parte di tutta l’informazione sullo stato originario e non tutti hanno proprio lo stesso pezzettino di informazione. Quindi ogni piccola frazione di universo (che noi possiamo misurare per trarre qualche informazione sull’elettrone) ci fa vedere uno stato leggermente diverso; in pratica lo stato iniziale ha prodotto una gran quantità di stati “figli”, ciascuno un po’ diverso dall’altro, che vivono nell’ambiente circostante. In questo modo uno stato quantistico riproduce se stesso in una molteplicità di copie simili ma non uguali all’originale (e quindi abbiamo sia la riproduzione che la mutazione).

Questi stati figli però non sono tutti uguali: alcuni sono tali da non poter sopravvivere a lungo nell’ambiente e le informazioni che li compongono diventano ben presto illeggibili e quindi immisurabili. Altri, per via del teorema di no-cloning, non sono in grado di lasciare a loro volta un’impronta nell’ambiente e quindi sono, sotto tutti gli aspetti, sterili. Solo una frazione molto piccola e ben delimitata di stati riescono a produrre copie di se stessi che a loro volta possano riprodursi. La “selezione naturale” in questo caso è data dal fatto che uno stato, per poter lasciare un’impronta duratura nell’ambiente, deve sottostare a regole ferree e deve essere “adatto” all’ambiente che lo circonda. In più la quantità di informazione che una certa porzione di ambiente può contenere è limitata (per esempio il numero di fotoni che colpiscono la pagina del libro è alta ma finita) e quindi esiste una “risorsa naturale” per cui gli stati competono. In questo modo solo gli stati “più adatti” all’ambiente che li circonda in quel dato momento possono replicarsi e influenzare il resto del mondo. Sono solo questi che possono essere effettivamente “misurati” da noi e che noi considereremo come reali.

In conclusione abbiamo un’entità (lo stato quantistico di un elettrone) che è capace di riprodursi (rilasciando copie di se stesso nel resto del mondo fisico) ma le cui copie non sono identiche all’originale (dato che contengono solo una parte di tutta l’informazione sullo stato originario) e nemmeno identiche l’una all’altra (e quindi abbiamo un processo di mutazione). Abbiamo poi un processo di selezione dovuto al fatto che non tutti gli “stati figli” sono egualmente adatti a sopravvivere all’interazione con l’ambiente senza diventare un rumore di fondo impossibile da misurare (l’insieme delle leggi che determinano quali stati possano sopravvievere e quali no è piuttosto complesso e la loro descrizione puntuale esula dalle possibilità di un semplice blog non specialistico, si rimandano quindi gli interessati agli articoli di Zurek ed in particolare alla review recentemente apparsa su Nature Physics). Le condizioni particolari che permettono ad uno stato di sopravvivere o meno abbastanza a lungo da poter interagire col resto dell’universo (diventando in qualche modo uno stato “oggettivo” che descrive le proprietà dell’elettrone stesso) dipendono poi dalla configurazione locale dell’ambiente in un dato momento; dato che questa configurazione cambia in continuazione lo stato dell’elettrone è obbligato ad adattarsi in continuazione alle mutate condizioni producendo nuovi stati figli e assumendo le proprietà dei più adatti alla sopravvivenza. In più esiste anche un meccanismo di competizione per una risorsa fondamentale ma limitata: infatti gli stati quantistici sono definiti dall’informazione che trasportano ma la quantità di informazione che è possibile immagazzinare nell’ambiente è una quantità limitata e quindi gli “stati figli” devono competere l’uno con l’altro per esistere (il perdersi nell’entropia dell’ambiente circostante è, per uno stato quantistico, un po’ l’equivalente della morte). Abbiamo quindi tutti gli ingredienti per fare un parallelo fra l’evoluzione di uno stato quantistico (quando questo sia a contatto con l’ambiente) e l’evoluzione Darwiniana. Ovviamente il parallelo non è del tutto perfetto (nessun parallelo può essere perfetto) ma almeno gli ingredienti fondamentali ci sono tutti.

A volte le idee (quelle buone ma anche quelle poco buone) arrivano da dove meno te lo aspetti. A me ne è venuta una (anche se ancora non saprei dire se è buona o se farei meglio a sotterrarla) leggendo uno sfogo di un anziano prof (un boss nel mio settore) su quanto facciano pena i vari sistemi per la gestione delle referenze scientifiche.

Una prefazione per chi non è del ramo: per chi scrive di scienza (ma anche per chi scrive di filologia normanna) referenze e citazioni sono una parte fondamentale del proprio lavoro. Quando si scrive un articolo non si può ripartire sempre da Adamo ed Eva e quindi, sia per inquadrare l’argomento, sia per dare un’indicazione al lettore di dove si trovino dimostrati/spiegati alcuni risultati che utilizziamo ci si riferisce a lavori precedenti. Il numero di volte che un certo articolo/libro/monografia è stato citato da altri viene generalmente considerato un indicatore di quanto impatto abbia avuto sulla comunità scientifica e quindi è un’indicazione della sua importanza (del funzionamento e delle perversioni dell’impact factor avevamo già parlato a suo tempo). Avere un database completo e facile da utilizzare delle referenze risulta quindi estremamente utile. Anche un sistema per mettere le referenze nei propri scritti in maniera il più possibile semi-automatica non sarebbe male.

Mentre la seconda dipende direttamente dall’editor di testi che usate (io amo molto LaTeX e la gestione della bibliografia tramite BibTeX) la prima è una questione di fonti. Il metodo più brutale è di andare, volta per volta, sul sito/catalogo dell’editore della rivista/libro che vi interessa, cercare le informazioni e poi trascriverele. Un metodo più furbo è andare su un database on-line, fare una rapida ricerca, esportare la bibliografia nel formato che vi interessa e importarla nel vostro text editor di fiducia. Questo però presuppone l’esistenza di un database completo, ben fatto, facile da usare e, soprattutto, accessibile.

In ambito scientifico (almeno per la fisica e la chimica) “il database” per eccellenza è l’ISI Web of Knowledge. Si tratta di un database piuttosto completo (i dati per alcune riviste vanno indietro fino agli inizi del XX secolo) ma è a pagamento. Questo può non essere un problema così importante dato che gran parte delle università ha accesso e che qualcuno dovrà pur pagare quei poveretti che tengono aggiornato il database. Un problema un po’ più grosso è che dà di matto tutte le volte che c’è un carattere che esula dall’alfabeto inglese e, ancora peggio, è che non ha un sistema pulito ed univoco per gestire le identità degli autori. Appena il nome di qualcuno esula anche di poco dagli standard americani diventa necessaria una certa fantasia per riuscire a trovare la persona che si sta cercando.Un “Bart van Tiggelen” diventa (a seconda di come gli gira alsito) “Bart vanTiggelen”, “BART VANTIGGELEN”, “Bart Tiggelen Van” ed infinite altre combinazioni (case sensitive) con cui l’utente ha modo di divertirsi nel disperato tentativo di trovare le informazioni di cui ha bisogno. Se poi ci sono delle omonimie (anche solo di cognome) il database non è assolutamente in grado di distinguere chi è chi e, nel caso di nomi comuni come un “García López” (che già viene impietosamente trasformato in “Garcia Lopez”) si rischia di trovarsi davanti le pubblicazioni di decine e decine di autori diversi che operano in settori diversissimi tra loro.

Mi dicono che Scopus (altro database a pagamento) sia un po’ meglio, anche se meno completo. Io però non sono in grado di verificare dato che la mia università non ha l’accesso.

Quale sarebbe allora l’idea? Semplice, dato che ciascuno di noi (dove per “noi” intendo quelli che scrivono articoli più o meno accademici ) ha da qualche parte sul suo computer una piccola raccolta di queste referenze, perché non le mettiamo tutte insieme e creiamo un database aperto, gratuito e sotto licenza libera così che tutti possano utilizzarlo? Gente che di informatica ne mastica più di me mi dice che per farlo serva una cosa chiamato “database semantico” (o qualcosa di simile, perdonatemi ma non sono un esperto del settore) ma non credo che questo sarebbe un problema. Anche la tecnica in stile wikipedia di lasciare libertà di editare il database a tutti quelli che passano potrebbe creare qualche problemino; tuttavia questo si risolve facilmente permettendo la scrittura solo a chi siano riconoscibili come “scienziati”. Se io do il permesso in scrittura a tutti gli scienziati che conosco e loro danno il permesso a tutti quelli che conoscono loro in pochi passaggi abbiamo già incluso (con nome e cognome in chiaro e riconoscibili) tutti i possibili utenti di una cosa del genere.

Insomma, io sono convinto che con uno sforzo limitato sia possibile mettere in piedi un database ragionevolmente completo, di libero accesso e “costruito dal basso”. Certo, rimane aperto il problema di come risolvere i doppioni, le omonimie ecc ma sono convinto che con un po’ di buona volontà sia possibile superare questi dettagli tecnici senza troppi problemi.

Qualche tempo fa feci l’errore di comprare biglietti VolareWeb per le mie vacanze natalizie. Qualche tempo prima della partenza mi fecero gentilmente sapere che il volo era stato annullato e che avrebbero proceduto a rimborsarmi al più presto. Oggi finalmente scopro (tramite mail da Info@VolareWeb.com) che “al più presto” vuol dire mai.

Infatti, come tutto sommato mi aspettavo, VolareWeb (e con lei tutta la parte “cattiva” di Alitalia) è andata in amministrazione straordinaria ed è attualmente al tribunale fallimentare. Adesso ho il diritto (evviva!) di “presentare apposita istanza di insinuazione al passivo presso il Tribunale di Roma” (ovvero posso mettermi in coda). Il tutto, ovviamente, assumendo che io presentassi l’istanza entro il 13 gennaio 2009…

Chi aveva detto che il lasciare i debiti sulle spalle dello stato non avrebbe avuto ripercussioni sulle tasche dei cittadini? Chi me li ridà i miei soldi?

Per maggiori informazioni: www.alitaliaamministrazionestraordinaria.it

Edit: Ho sentito altroconsumo. Pare che per recuperare quel centinaio di euro ne dovrei spendere quasi 500 per l’insinuazione al passivo. In più, anche considerato che (mannaggia a loro) sono fuori tempo massimo, le probabilità di riaverli sarebbero bassissime. Sospetto che lascerò perdere e che mi segnerò di non comprare mai più nulla che abbia anche solo lontanamente a che fare con Alitalia.

Io non sono un “vero” bloggher. Non vengo letto da migliaia di persone, non conosco stelle del blogocono, ho poco più di una cinquantina di feed, e non vado a raduni di bloggher. Però ho notato un  fatto che mi rende perplesso e magari qualcuno di voi mi può aiutare.

Da un po’ di tempo noto un certo scollamento fra la qualità di alcuni blog e la qualità dei commenti. Mi capita sempre più spesso di trovare blog interessanti, scritti in maniera intelligente e pacati dove i commenti sono, al 99%, così raccapriccianti che fa pena a leggerli. Facciamo un paio di esempi: Piovono Rane e Spinoza sono due blog molto diversi tra di loro ma entrambi di buon livello; in entrambi i casi però il livello medio dei commenti non raggiunge quello del Bar Sport. Eppure se io leggo ed apprezzo questi blog e loro (i commentatori) leggono ed apprezzano questi blog qualcosa in comune dovremo pur averlo. Per quanto mi sforzi però io non riesco proprio a capacitarmi che qualcuno che abbia qualcosa in comune con me riesca a partorire commenti che sono così lontani dal mio sentire. Qui gatta ci cova…

Argomentazioni forti by

4 Mar
2009

Qualche giorno fa ho avuto una pseudo-discussione (pseudo perché è avvenuta tramite scambio di messaggi su Facebook) sul nucleare. In particolare il mio interlocutore (che conosco da diversi anni) mi invitava a far parte di un gruppo contro la reintroduzione del nucleare in Italia. Premesso che io sono abbastanza contro il nucleare in Italia, ho declinato l’invito poiché le argomentazioni portate erano del tipo: “le centrali nucleari sono pericolose perché esplodono (Chernobil)” o “le centrali nucleari avvelenano di radiazioni tutto quello che le circonda” che sono francamente delle idiozie. Quando gliel’ho fatto notare lui mi ha risposto una cosa del tipo “Sono d’accordo ma le tue sono argomentazioni evolute. Per smuovere un’opinione pubblica assopita ci vogliono argomentazioni forti”.

Devo dire che, pur con tutta la stima che ho per la persona con cui parlavo, a me ragionamenti del genere fanno accapponare la pelle. Infatti la filosofia di base che sta dietro ragionamenti del genere è “la gente è stupida e, se tu cercassi di spiegarli le cose così che possa ragionare con la propria testa, non capirebbe”. Seguendo questo approccio il politico/giornalista/intellettuale è giustificato nel trattare le persone come pecore e ad abbassare in continuazione il livello del messaggio. Se il “popolo bue” non capisce perché sforzarsi? Invece di raccontargli, magari con parole semplici, come stanno le cose e fare in modo che possa farsi una propria idea e decidere in maniera libera tanto vale bombardarlo di messaggi palesemente fasulli ed in mala fede ma che fanno presa su paure ataviche.

Finché questa tecnica la usano dei demagoghi populisti mi fa arrabbiare ma non ci posso fare molto. Vedere che persone che stimo e con cui condivido molte delle idee politiche trovano normale ed inevitabile un approccio del genere mi mette addosso una tristezza che manco ve lo potete immaginare.

La gente (tranne rare eccezioni) non è del tutto rincretinita. Semplicemente è male informata ed è troppo pigra (o gli manca il tempo, o non sa come fare ecc) per  informarsi nei dettagli sui vari argomenti. La “missione” degli intellettuali dovrebbe essere quella di prendere queste persone e raccontargli nel modo più lineare e pulito possibile i fatti e le opinioni, tenendo le due cose ben separate e lasciando che ciascuno decida con la propria testa. Non di fare a gara a chi li tratta più da cretini.

Per un lungo periodo mi sono permessa il lusso di pensare che i muri che avrei visto fossero finiti, e invece no.

Qualcuno ha venduto per anni sedicenti pezzi del muro di Berlino, qualcuno offre ora scritte (di speranza?).

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