Wiki, web2.0, copyright, Wikipedia, Wikimedia, GNU, Creative Commons
Ipotizziamo che abbiate fatto una qualche scoperta scientifica (avete scoperto Atlantide, una forma di energia pulita ed inesauribile, la quadratura del cerchio o cose così). Una volta che siete sicuri di quello che dite il primo passo da fare per ottenere il riconoscimento che vi spetta è descrivere per filo e per segno quello che avete scoperto in un inglese accettabile. Se non conoscete l’inglese scrivete in italiano e fatevelo tradurre da un amico. Poi prendete una rivista scientifica di un settore ragionevolmente vicino a quello della vostra scoperta (se ce ne sono troppe e non sapete decidervi tipicamente puntate a quella con l’impact factor più alto) e mandategliela. L’editor della rivista si leggerà il vostro articolo e, se lo considererà interessante e vicino al tema della rivista stessa, lo invierà a due o tre specialisti del settore che verificheranno la correttezza di quello che dite. Se questi specialisti (in gergo noti come “referee”) daranno il loro assenso la vostra scoperta verrà pubblicata e tutti saranno contenti.
Un procedimento così complesso è dovuto alla necessità di dare autorevolezza ai lavori scientifici. Se qualcosa viene pubblicato magari non è perfetto, magari arriva a conclusioni azzardate, però, essendo dovuto passare dalle forche caudine del peer review si suppone che sia comunque un lavoro ben fatto e degno di attenzione e rispetto. Al contrario gli scienziati di solito diffidano di risultati o scoperte che non hanno mai dovuto passare per le mani di un referee; le probabilità che una ricerca presentata unicamente in una monografia (magari pubblicata a spese dell’autore) o su un sito internet sia farlocca sono troppo alte.
Tuttavia, come purtroppo capita spesso, c’è un MA grosso come una casa. Quello che può succedere (e che talvolta succede) è che qualcuno sfrutti questo sistema per dare “autorità scientifica” a lavori che invece non ne avrebbero alcuna. Prendiamo l’esempio di una multinazionale i cui prodotti suscitino dubbi nel pubblico (ad esempio perché c’è il rischio che facciano male alla salute); correttezza vorrebbe che i test e le analisi venissero condotti da ricercatori seri ed indipendenti (nel senso di non stipendiati dalla multinazionale stessa) e che i risultati, positivi o negativi che siano, venissero sottoposti ad un processo di peer review e poi pubblicati su riviste di settore. Se però la correttezza non è di casa la multinazionale potrebbe decidere di dare risalto ai risultati a lei favorevoli e sotterrare quelli contrari. Come? Ad esempio pagando una casa editrice per creare una rivista dall’apparenza scientifica, che abbia l’aspetto di un giornale dove si pubblicano risultati che sono passati attraverso tutto il processo di peer review ma che, nei fatti non lo sia. In questo modo la multinazionale potrà sbandierare ai quattro ventigli “importanti risultati pubblicati su riviste scientifiche di rilievo internazionale” a suo favore anche quando questi risultati non ci sono mai stati o quando questi siano solo una netta minoranza.
Impossibile? Impensabile? Dopo tutto perché un gioco del genere funzioni ci vuole una casa editrice con una lunga storia nella pubblicazione di riviste scientifiche. E chi butterebbe mai via la propria reputazione per una cosa del genere? Eppure pare che la Merck (multinazionale chimico-farmaceutica) abbia pagato la Elsevier (maggior editore mondiale in ambito medico e scientifico) per pubblicare una rivista apparentemente identica alle altre ma completamente priva di una qualsiasi forma di revisione scientifica da riempire con ricerche a lei favorevoli in modo da ottenerne un ritorno di immagine. Difficile credere che si sia potuto trattare di un errore in buona fede o di un fraintendimento dato che, poco dopo, è venuto fuori che le riviste farlocche create a favore di questa o quella industria medico-farmaceutica erano almeno 6! Incidentalmente recentemente mi è stato fatto notare che la Elsevier, oltre ad essere nota per il gran numero di riviste di basso livello pubblicate e per avere uno dei siti web più inutilizzabili mai visti, ha anche un costo medio per le nostre biblioteche universitarie circa 3 volte maggiore di quello di altre prestigiose case editrici in ambito scientifico.
In altri casi il problema non è (forse) tanto la malafede quanto una certa pigrizia ed incompetenza di chi sarebbe preposto ai controlli. Infatti è recente la notizia di uno studente di Scienze della Comunicazione che, come test, ha inviato alla rivista di libero accesso (ovvero dove non si paga per accedere on-line agli articoli pubblicati) The Open Information Science Journal un articolo composto di frasi prive di senso logico. Se ci fosse stato una qualsiasi forma di controllo da parte dell’editor o da parte di uno o più referee l’articolo sarebbe stato rispedito al mittente in pochi minuti. Invece è stato accettato per la pubblicazione! (fonte) Quando la cosa è venuta fuori l’editor è stato costretto a dimettersi ma questa è una prova che cose di questo generenon solo possono capitare, ma capitano. E non solo ad oscure riviste di settore, il caso di Nature e della memoria dell’acqua (dove uno studio, passato senza alcun tipo di controllo e successivamente rivelatosi del tutto sbagliato, sembrava dimostrare uno degli assunti di base dell’Omeopatia) è celebre e sta lì a ricordarci che non ci dovremmo mai fidare acriticamente delle nostre fonti nè, tantomeno, di chi ci sventola sotto il naso prove che prove non sono.
Comments are closed.